Realizzazione di una daiza per un’arenaria piuttosto pesante e articolata.

Realizzazione di una daiza per un’arenaria piuttosto pesante e articolata.

Vidi per la prima volta questa tipologia di pietra una ventina di anni fa nel giardino di un amico. In quel luogo dove lui abita, vengono tutt’ora trovate semi sommerse nel terreno durante l’aratura e la lavorazione dei terreni agricoli, tanto è vero che gli abitanti della zona le utilizzano per decorare e delimitare parte delle loro proprietà.

Il mio primo impatto con queste pietre di arenaria fu di sorpresa e stupore, soprattutto mi colpirono per la loro forma tendenzialmente globosa e particolarmente singolare. Infatti il mio amico, vedendomi interessato, mi accompagnò con mia somma gioia nei suoi possedimenti, e li raccolsi la mia prima pietra che Tom Elias, appena la vide, battezzò Botero stones.

A casa incominciai a pulirne alcune e mi accorsi che la superficie era morbida. Tale caratteristica era dovuta, come scoprii in seguito, a piogge acide che disgregavano il legante a base di calcio e altri componenti. Scoprii anche che asportato con la spazzola per alcuni millimetri sotto, lasciava spazio ad una parte molto dura e compatta, ma in compenso – e per fortuna – anche più liscia e meno ruvida. Potete immaginare l’emozione che provai nel passare la mano su quelle forme arrotondate e paffute che ricordavano  come disse Tom le “sculture di Botero”. In seguito notai che, se prima  di pulirle venivano lasciate stagionare all’aperto con il sole e l’umidità notturna, assumevano una patina, probabilmente dovuta dalla formazione di licheni e dall’ossidazione di alcuni elementi minerali contenuti all’interno rendendoli più gradevoli alla vista.

Con il tempo, su alcune iniziai a costruire la daiza che piacevolmente, con queste ultime, acquistavano maggior interesse. Continuai, e continuo tuttora la ricerca. Confesso che alcune ancora oggi dopo parecchi anni riescono continuamente con il loro intrinseco fascino ad intrigarmi. Infatti molte volte mi accorgo che mentre le osservo, con la mente, fantastico e immagino quante cose possono aver visto e vissuto e che, se potessero parlare, quante cose avrebbero da raccontarmi prima di essere entrate a far parte della mia collezione.

Comunque, per quanto mi riguarda una cosa  è certa: la qualità intrinseca e la ricerca personale di queste arenarie è dovuta dalla loro morfologia che si presta a molteplici interpretazioni. È quasi divertente girarle e rigirale tra le mani, magari in compagnia di appassionati e amici per scoprire ciò che ognuno ci vede.
Ricordandoci sempre comunque che, tutti i suiseki sono pietre, ma non tutte le pietre sono suiseki…

Vorrei documentare a titolo informativo che queste pietre di arenaria sono composte da granuli delle dimensioni medie di una sabbia. I granuli possono avere varia composizione minerale, in funzione dell’area di provenienza. Tra i grani più resistenti all’abrasione e all’alterazione chimica  comunemente abbondano quelli di quarzo, minerale che proprio per la sua resistenza è uno dei costituenti più comuni di queste rocce con peso specifico piuttosto elevato. I granuli sono tra loro legati da un cemento naturale, originato dalla precipitazione chimica di minerali formati da ioni presenti nelle acque circolanti fra i pori interstiziali. Comunemente come legante si rinviene il carbonato di calcio, sia sotto forma di calcite, che di aragonite; meno abbondantemente la silice e feldspato e talvolta anche ossido di ferro.

In una delle ultime visite che feci al mio amico, come al solito andammo a raccattare nella sua tenuta queste arenarie. Appena arrivati sul posto, venni attratto in modo particolare da una pietra che, in un primo momento rimasi un attimo spiazzato per la sua grandezza, ma l’amico senza troppo tergiversare  la caricò sul  fuoristrada e io, un po’ dubbioso, la portai a casa. Rimase nel mio giardino per circa un paio d’anni fino a che nell’inverno del 2019 dopo un’ennesima osservazione presi la decisione di intervenire con l’intento di valorizzarla.

Premetto che questa pietra (dalla dimensione piuttosto voluminosa) pesa 27 kg. per 65 cm. di altezza. Come si può intuire, fin da subito la daiza non apparve di semplice realizzazione, o quantomeno molto impegnativa e faticosa.

Dopo un attenta analisi, conoscendo le mie capacità e non disponendo di attrezzatura adeguata, scartai l’idea del fai da te. Subito pensai all’amico Franco Mauri (alias Frank Peperino) che dopo un colloquio telefonico ci accordammo per portala nel suo laboratorio, dicendomi fin da subito: “Ok, no problem per il lavoro da fare, purché non mi fai fretta…”

Bene, ora dopo questa anteprima comincerei con il documentare fotograficamente la pulizia e poi la realizzazione della daiza. Infatti nella (foto 1) la pietra che dopo essere stata trovata e lasciata per altri due anni in giardino è ancora ricoperta di incrostazioni con muschi e licheni vari;

quindi, rimboccatomi  le maniche, ma non troppo per via del freddo, inizio usando un trapano con montato su un mandrino la spazzola di ferro, e poi rifinitura con spazzola metallica a mano (foto 2-3).

Nelle successive fotografie (4-5) la pulizia è già a buon punto, mentre in un secondo tempo verrà lucidata con cera d’api.

Ora che la pietra è pulita, partenza per il laboratorio di falegnameria dell’amico Franco. Al mio arrivo, ricevimento con tutti gli onori per la signora (pietra) (foto 6) che viene immediatamente sottoposta a visita di controllo.

Subito il maestro d’ascia la sottopone a test di resistenza foto (7-8).

Da ora sino alla fine della lavorazione, la signora alloggerà nel laboratorio di Franco e vi rimarrà per tutto il tempo necessario per la costruzione della daiza. Si è optato fin da subito per una forma fuori dai soliti canoni giapponesi, utilizzando l’ottimo legno di tiglio. Il legno è facile da piallare, da segare, da inchiodare, da incollare, da verniciare e questo facilita la lavorazione e lo rende idoneo ad essere lavorato per molte altre finalità.  (9-10).

L’esperto artigiano  incomincia con il prendere tutte le misure, e quando necessita usa pure il calibro per avere la certezza che queste siano precise. foto (11)

A questo punto si può iniziare il lavoro di tornitura dove la daiza subirà una trasformazione lenta e graduale (foto 12).

Ultime verifiche per costatare che la daiza combaci perfettamente con la pietra. (foto 13)

Siamo sulla dirittura d’arrivo. Dopo che la daiza ha subito con lo scalpello una fine e delicata decorazione, viene tinta a spruzzo e in seguito lucidata. (foto 14)

Vi ricordate cosa mi disse prima di iniziare il lavoro l’amico Franco? “Non farmi fretta!” 

Bene dopo quasi un anno ricevo la telefonata che il lavoro è finito, evviva! Mi precipito a ritirala (foto 15)

Attualmente la signora (non ha ancora un nome) si pavoneggia in mezzo alle altre della mia collezione.

Approfitto sulla fine di questo articolo per dire a chi pensa che faccio uso di allucinogeni di stare tranquillo, al massimo qualche bicchiere di buon vino!!! Alla prossima.

Gian Luigi Enny © RIPRODUZIONE RISERVATA

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